TECNOLOGIA DEL CALCESTRUZZO
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"È duttile e tenace il calcestruzzo
del 2000"
Cronaca di un successo annunciato
Enco Journal n.2 - 1996
Silvia Collepardi
"Calcestruzzo per sempre"
Enco Journal n.2 - 1996
Mario Collepardi
"Durabilità del calcestruzzo secondo
le Linee Guida
del Ministero LL.PP."
Parte IV: esposizione al gelo e ai sali disgelanti
Enco Journal n.12 - 1999
Mario Collepardi e Luigi Coppola
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Articolo tratto dal sito www.ziqqurat.net
IL CALCESTRUZZO DIVENTA AUTOCOMPATTANTE
Razionalizzazione dei processi costruttivi,
tecniche innovative, manodopera meglio distribuita,
migliori condizioni di lavoro, strutture
più durevoli. Questi sono alcuni dei vantaggi
derivati dall’impiego del “self compacting
concrete”. Il nuovo conglomerato cementizio,
di cui i Giapponesi sono i pionieri, è dotato
di un’elevata fluidità che permette maggiore
velocità dei getti e conseguente risparmio
di tempo. Le sue caratteristiche fisiche
ed elasto-meccaniche costituiranno in futuro
un importante cardine nello sviluppo del
settore delle costruzioni.
Ormai da tempo, in Italia e nel mondo, numerosi
convegni, congressi e seminari, si sono occupati
principalmente della durabilità delle strutture
in conglomerato cementizio armato e precompresso.
In particolare, il settore della tecnologia
del calcestruzzo e delle costruzioni hanno
indirizzato le proprie ricerche sulla funzionalità
delle strutture e sulla loro capacità di
resistenza ai carichi statici e dinamici
in servizio ed alle azioni aggressive dell’ambiente.
Tra le norme e raccomandazioni emanate in
Europa, aventi come obiettivo l’aumento di
resistenza del calcestruzzo alle azioni aggressive
ambientali, si ricorda la Env 206 che, all’inizio
degli anni ’90, ha definito i requisiti minimi
(in termini di rapporto acqua/cemento massimo
e dosaggio minimo di cemento) per realizzare
calcestruzzi di lunga durata in relazione
al livello di aggressione ambientale classificato
in distinte classi di esposizione. In Italia
questa norma è stata recepita nel Decreto
Ministeriale del 14 Febbraio 1992, e in seguito
in quello del 9 Gennaio 1996, ancora in vigore.
Per realizzare una struttura funzionale e
resistente nel tempo, è di fondamentale importanza
l’utilizzo di un calcestruzzo durevole confezionato
dal produttore in base alle prescrizioni
dettate dalle normative. A volte però si
concretizzano situazioni in cui le operazioni
di posa in opera, compattazione e stagionatura,
non abbastanza curate, provocano numerosi
difetti: ad esempio vespai e nidi di ghiaia,
frequenti nelle strutture verticali (pile,
pilastri, muri di sostegno) e in quelle sub-orizzontali
(rampe d’accesso, scale, tetti a falde);
soluzioni di continuità in corrispondenza
delle riprese di getto di strutture estese
in cui non si può eseguire la messa in opera
con un getto unico; infine, per una carente
protezione umida della struttura, formazione
di cavillature sulla superficie del conglomerato,
che facilitano l’azione degradante delle
sostanze aggressive presenti nell’ambiente.
Ormai da anni si verifica una contraddizione
sulla durabilità delle opere in conglomerato
cementizio. Mentre da un lato, con la definizione
dei livelli di aggressione ambientale e i
relativi provvedimenti in termini di acqua/cemento
massimo, dosaggio di cemento e copriferro
minimi da adottare, si è verificato un potenziale
aumento della durabilità delle opere in calcestruzzo,
di fatto il settore edile di molti paesi
industrializzati è stato caratterizzato da
un aumento del degrado strutturale dovuto
a una cattiva esecuzione del calcestruzzo,
con un aumento dei difetti della struttura
in opera e una diminuzione del suo grado
di durabilità. Le cause di questo degrado
sono riscontrabili in un generale decadimento
della qualità della manodopera presente in
cantiere e da un basso livello di meccanizzazione
dei cantieri edili relativamente ad alcune
operazioni: i lavori di betonaggio, messa
in opera e compattazione, ancora molto faticosi,
hanno favorito così lo spostamento dei lavoratori
più esperti e di quelli più anziani, verso
attività fisicamente meno impegnative. Il
primo passo per garantire una durabilità
della struttura potrebbe essere un intenso
programma di formazione per migliorare la
qualità della manodopera disponibile sul
cantiere. Rimarrebbero comunque le difficoltà
legate alle carenze strutturali del settore
e al livello di meccanizzazione esistente,
e la presenza di manodopera qualificata non
eliminerebbe comunque i problemi riguardanti
l’impossibilità di realizzare il getto nelle
strutture sottili e armate, dove non sarebbe
possibile l’utilizzo di vibratori. Per ottenere
una struttura in calcestruzzo durevole, occorre
rendere la qualità del conglomerato il più
possibile indipendente dalle condizioni esistenti
in cantiere, dalla qualità della manodopera
e dai sistemi di getto e di compattazione
disponibili. Questo sarà possibile utilizzando
un conglomerato che, una volta scaricato
dall’autobetoniera, sia in grado di sopperire
a possibili carenze ed errori provocati in
fase di messa in opera e compattazione.
DALL’ORIENTE UN PRODOTTO ALL’AVANGUARDIA
Nello specifico settore del calcestruzzo,
il Giappone è sicuramente all’avanguardia
rispetto agli altri paesi. Basti pensare
che la tendenza a sostituire i tradizionali
additivi a base di naftalin-solfonato e melammina-solfonata
con gli additivi superfluidificanti dell’ultima
generazione (i poliacrilati, dalle migliori
prestazioni), è nata in Giappone verso la
fine degli anni Ottanta e si è consolidata
in Europa solo dieci anni dopo. Lo stesso
si è verificato per il riciclo del calcestruzzo
demolito, per lo sviluppo dei materiali compositi
nel settore del restauro e del consolidamento,
e per l’introduzione del calcestruzzo autocompattante,
un prodotto della ricerca tecnologia che
a buona ragione può fregiarsi del titolo
di “novità”. Infatti, il risultato della
ricerca tecnologica giapponese ha portato
alla creazione di una particolare tipologia
di conglomerati definiti calcestruzzi autocompattanti
(self compacting concrete) che saranno in
grado di migliorare in futuro il processo
di industrializzazione del settore delle
costruzioni. Si tratta di un calcestruzzo
dalle particolari caratteristiche reologiche,
fisiche ed elasto-meccaniche, dotato di elevata
stabilità e ridotta tendenza alla segregazione
anche in presenza di operazioni di posa eseguite
non correttamente. Il nuovo conglomerato,
riempiendo completamente i casseri ed eliminando
macrovuoti e aria in eccesso indipendentemente
dall’efficacia con cui viene compattato,
porta all’eliminazione di macrodifetti e
macrobolle responsabili della diminuzione
delle prestazioni meccaniche e del grado
di durabilità della struttura. La principale
proprietà di questo calcestruzzo è l’autocompattabilità,
che consiste nella capacità di essere gettato
all’interno di una cassaforma di cui occuperà
gli angoli più remoti e di difficile accesso,
senza richiedere forze esterne come la vibrazione
o la compattazione, ma facendo affidamento
esclusivamente alla forza del peso proprio.
Nelle strutture in conglomerato cementizio
armato prive di ostacoli quali restringimenti
di sezione o zone a elevata congestione di
armatura, è opportuno che questo materiale
possegga un’elevata deformabilità allo stato
fresco, cioè sia in grado di modificare la
sua forma sotto l’azione del proprio peso
assumendo quella dello stampo entro cui viene
introdotto e raggiungendo le zone della cassaforma
più o meno distanti dal punto in cui viene
effettuato il getto. Nelle strutture con
presenza di molti ostacoli, il materiale
dovrà fluire superando i ferri d’armatura:
in tal caso l’autocompattibilità è connessa
sia con la deformabilità che con la mobilità
in spazi ristretti: il conglomerato dovrà
essere in grado di scorrere in presenza di
sezioni ristrette, dove è possibile un arresto
del suo flusso (definito blocking) provocato
dall’aumento del numero di collisioni dei
granuli dell’aggregato grosso. Occorrerà
dunque un volume di pasta di cemento in eccesso
rispetto a quello normalmente impiegato nei
calcestruzzi tradizionali: lo spessore di
pasta attenuerà tali collisioni facilitando
lo scorrimento del calcestruzzo in prossimità
di quelle sezioni congestionate. Oltre all’elevata
fluidità, che permette la messa in opera
senza richiedere alcuno sforzo di compattazione,
il calcestruzzo autocompattante deve possedere
un basso rapporto acqua-cemento grazie alla
presenza di additivi superfluidificanti,
e deve avere un’elevata resistenza alla segregazione.
Deve cioè essere in grado di conservare uniforme
distribuzione degli ingredienti che lo compongono
(cemento, aggiunte, aggregati, additivi e
acqua) nelle diverse fasi: durante la posa
in opera, quando fluisce nello stampo ed
entra in contatto con le armature e le pareti
del cassero, e dopo il riempimento del cassero,
evitando la sedimentazione degli aggregati
grossi sul fondo e di conseguenza la risalita
di acqua in superficie (definita bleeding).
In base a forma, dimensioni della struttura
e percentuale di armatura delle sezioni più
congestionate, la progettazione e il confezionamento
dei calcestruzzi autocompattanti dovrà essere
in grado di garantire un livello di autocompattabilità
minimo.
SELF-COMPACTING CONCRETE: LA NOVITA’ IN CANTIERE
Quando si analizzano i calcestruzzi ci si
affida alla reologia, una scienza che studia
lo scorrimento e la deformazione della materia,
e che quindi può essere applicata ai sistemi
cementizi, al tempo stesso deformabili e
capaci di scorrere. Il procedimento di associare
l’elevata fluidità con una bassa segregazione
risale a circa venticinque anni fa, poco
dopo la creazione dei primi additivi superfluidificanti.
S’iniziò così a parlare di calcestruzzo “reoplastico”,
termine con cui si indicava un calcestruzzo
con additivo superfluidificante che fosse
fluido (in greco “reo” significa “scorrere”,
“fluire”) ma nello stesso tempo “plastico”,
cioè dotato di coesione e privo di segregazione.
Questo calcestruzzo, precursore del self-compacting
concrete, da allora è stato ampliamente utilizzato
in diverse opere proprio grazie alle sue
particolari caratteristiche. Normalmente
viene posto in opera in strutture snelle
e densamente armate: spazi in cui occorre
un’elevata fluidità per facilitare il flusso
del materiale. Molti calcestruzzi iperprestazionali
sono preconfezionati, cioè portati sul luogo
di getto con autobetoniere. Spesso i tempi
di posa in opera e di compattazione sono
lunghi, quindi il calcestruzzo oltre a essere
caratterizzato da un basso rapporto acqua/cemento
ed elevata fluidità, deve mantenere a lungo
la sua lavorabilità. Un calcestruzzo tradizionale
superfluido è caratterizzato da una buon
valore di coesione, cioè una buona resistenza
alla segregazione, conseguita attraverso
l’aggiunta di superfluidificanti. Questi
materiali però sono caratterizzati da un’elevata
viscosità: necessitano di una forza esterna
che ne faciliti il movimento. Il calcestruzzo
autocompattante invece, è un conglomerato
che ha sì la stessa resistenza alla segregazione
di un calcestruzzo tradizionale superfluido
(cioè un elevato valore di coesione), ma
è caratterizzato da ridotta viscosità plastica,
e occorre applicare modesti valori di sforzo
per farlo muovere. Tali valori coincidono
con il peso proprio del materiale: basta
il peso proprio per imprimere un’elevata
velocità di scorrimento al conglomerato cementizio.
La produzione di un calcestruzzo con alto
indice di reoplasticità dipende soprattutto
da: § dosaggio di cemento, che deve essere
relativamente elevato (350-450 chilogrammi
al metro cubo) per garantire una sufficiente
coesione; presenza di filler (in particolare
di cenere volante), in sostituzione del cemento
fino al 35 per cento, quando il calore di
idratazione del cemento Portland può diventare
eccessivo; § assortimento granulometrico
degli aggregati per ostacolare la risalita
d’acqua e la segregazione; § dimensione massima
dell’aggregato che deve rimanere al di sotto
di 16 millimetri per garantire una migliore
mobilità del conglomerato. Gli aggregati
troppo grossi infatti, si muovono con difficoltà
e ostacolano il movimento del calcestruzzo
autolivellante in assenza di vibrazione.
Le caratteristiche del cemento Portland che
influenzano la reologia del calcestruzzo
consistono nella finezza e nel contenuto
di silicato tricalcico. Cementi con finezza
spinta e con maggior contenuto di silicato
aumentano il limite di scorrimento e la viscosità
plastica. I cementi fini ricchi di silicati
si comportano, riguardo all’autocompattabilità,
in duplice modo: da un lato con l’incremento
del limite di scorrimento si raggiunge una
maggiore stabilità, dall’altro l’aumento
della viscosità plastica potrebbe, in presenza
di dosaggi elevati, influire negativamente
sulle capacità di flusso del conglomerato
soprattutto in caso di getti di piccola massa.
I materiali pozzolanici naturali e le ceneri
volanti, sono particolarmente indicati per
realizzare calcestruzzi autocompattanti.
Le pozzolane aggiunte agli impasti aumentano
il limite di scorrimento ma non modificano
la viscosità plastica, quindi migliorano
la stabilità dei sistemi cementizi senza
peggiorarne le proprietà di flusso. L’influenza
del rapporto acqua/cemento sulle proprietà
del calcestruzzo sono identiche a quelle
esercitate dalla finezza e dal contenuto
di silicato tricalcico: se diminuisce il
rapporto acqua/cemento aumenta la viscosità
plastica e il limite di scorrimento. Dunque,
per avere un calcestruzzo autocompattante
occorre adottare rapporti acqua/cemento non
troppo bassi per non pregiudicare il flusso
di materiale. Gli additivi influiscono sulle
proprietà reologiche in modo diverso, in
base alla loro natura. Con additivi ritardanti,
dopo tempi superiori ai 30 minuti dalla miscelazione,
si ha una diminuzione sia del limite di scorrimento
che della viscosità plastica. Dunque apportano
benefici sulle proprietà reologiche, ma diminuiscono
la resistenza alla segregazione del calcestruzzo.
Gli additivi superfluidificanti utilizzati
per ridurre il rapporto acqua/cemento, determinano
incrementi della viscosità plastica e del
limite di scorrimento. Quelli utilizzati
per aumentare la lavorabilità, riducono limite
di scorrimento e viscosità plastica. Considerando
che, per conseguire l’autocompattabilità
è necessario aumentare il limite di scorrimento
e nel contempo diminuire la viscosità plastica,
si preferisce utilizzare gli additivi superfluidificanti
(a pari rapporto acqua/cemento) per aumentare
la lavorabilità del calcestruzzo ricorrendo,
per aumentare la resistenza alla segregazione
del conglomerato, all’utilizzo di additivi
coesivizzanti. Questi additivi, insieme ad
un accurato proporzionamento del volume di
pasta e di aggregato grosso, consentono di
aumentare limite di scorrimento senza modificare
sostanzialmente la viscosità plastica. Le
basi chimiche più utilizzate per la produzione
di additivi sono quelle naftaliniche o acriliche.
L’additivo acrilico in particolare, permette
di mantenere molto più a lungo la lavorabilità
del calcestruzzo nel tempo. Tra gli additivi
superfluidificanti di nuova generazione,
esistono quelli a rilascio progressivo, a
base di catene polimeriche di etere carbossilico
e privi di cloruri. Con un particolare meccanismo
d’azione, riducono il contenuto d’acqua rispetto
ai più efficaci superfluidificanti tradizionali
solfonati. Inoltre, consentono di abbassare
il rapporto acqua/polveri e di migliorare
il livello di coesione interna del calcestruzzo;
riducono drasticamente il problema della
ritempera del calcestruzzo (aggiunta d’acqua
a piè d’opera) e le deleterie conseguenze
sulla durabilità; permettono di ottenere
un materiale particolarmente compatto e quindi
impermeabile agli agenti aggressivi esterni
(cloruri, solfati e anidride carbonica) e
maggiormente resistente all’azione aggressiva
del gelo e disgelo; contribuiscono ad aumentare
la durabilità dell’opera e a migliorare sensibilmente
i valori di resistenze sia iniziali che finali,
ritiro, aderenza alle barre di armatura e
di impermeabilità all’acqua. I tradizionali
superfluidificanti solfonati provocano la
dispersione dei granuli di cemento grazie
al classico meccanismo di assorbimento e
repulsione. Questo effetto di natura elettrostatica
permette di ottenere una buona dispersione
della pasta di cemento con conseguente riduzione
della richiesta d’acqua a pari lavorabilità;
nel tempo tuttavia, i prodotti di idratazione
del cemento, ricoprendo la superficie del
granulo causano sia la diminuzione della
carica negativa superficiale che la graduale
perdita della lavorabilità dell’impasto.
Con i superfluidificanti di nuova generazione
invece, i granuli di cemento vengono dispersi,
oltre che per effetto elettrostatico, anche
per “effetto sterico” dovuto all’ingombro
“volumetrico” delle catene laterali idrofile
presenti sulla catena polimerica di base.
Ne deriva una elevatissima capacità di fluidificazione
e di riduzione del contenuto d’acqua. Quando
si progetta un calcestruzzo autocompattante
occorre trovare un giusto compromesso tra
proprietà reologiche e di stabilità del calcestruzzo.
La capacità di scorrimento del conglomerato
cementizio può essere interpretata in un
sistema in cui si distingue la pasta di cemento
(che costituisce il “fluido trasportatore”),
dagli aggregati (che costituiscono gli elementi
“trasportati”). Le capacità di flusso dell’aggregato
vengono comprese analizzando le proprietà
reologiche del fluido “trasportatore” (la
pasta di cemento). Il comportamento reologico
dei fluidi plastici, e quindi delle paste
di cemento, può essere riassunto nell’equazione
di Bingham: t = f + ?D Nell’equazione, t
è la tensione di scorrimento, f il limite
di scorrimento che rappresenta la tensione
minima da applicare per far muovere il materiale,
? è la viscosità plastica (cioè lo sforzo
che occorre applicare per determinare un
incremento unitario della velocità), D il
gradiente di scorrimento. Le due grandezze
f ed ?, possono definire la reologia del
Self-Compacting Concrete e in generale di
qualsiasi conglomerato. Infatti il limite
di scorrimento è proporzionale alla resistenza
alla segregazione del calcestruzzo, quindi
se aumenta la coesione aumenta anche la resistenza
alla segregazione del conglomerato. Per contro,
la viscosità plastica è inversamente proporzionale
alla capacità di flusso, e quindi una diminuzione
della viscosità plastica determina un aumento
della deformabilità del materiale e quindi
un aumento della capacità del calcestruzzo
di muoversi attraverso le armature.
LE PROVE IN CANTIERE
Un metodo per misurare i parametri reologici
consiste nell’utilizzo di un viscosimetro
a cilindri coassiali: nello spazio anulare
dei cilindri concentrici viene inserito il
sistema cementizio, dopodiché vengono imposte
velocità di rotazione diverse del cilindro
esterno (proporzionali al grediente di scorrimento)
e si registrano le deviazioni del cilindro
interno solidale con un filo di torsione
(proporzionali alle tensioni di scorrimento).
Per valutare le caratteristiche reologiche
dei calcestruzzi autocompattanti in cantiere,
quindi per valutarne la fluidità, i principali
metodi consistono nello Slump-Flow, nel V-Funnel
(oppure O-Funnel), nell’U-Shaped Apparatus,
nel Box-Shaped Apparatus, nell’L-box con
armatura verticale ed L-box con armatura
orizzontale. Rispetto al calcestruzzo reoplastico,
nel Self-Compacting Concrete la fluidità
e la bassa segregazione costituiscono non
solo le principali proprietà, ma sono caratterizzate
da valori molto elevati. La fluidità diventa
così “spinta” al punto che l’abbassamento
al cono di Abrams (Slump) è così elevato
(superiore ai 240 millimetri) da non essere
più significativo. Tuttavia le proprietà
reologiche possono essere misurate considerando
il diametro della focaccia di calcestruzzo
ottenuta dopo il sollevamento del cono (Slump-Flow)
(quando il flusso del conglomerato si è arrestato),
ed il tempo necessario alla focaccia di calcestruzzo
per spandersi e raggiungere il diametro di
500 millimetri e la posizione finale. La
misura del diametro finale è da considerarsi
proporzionale al limite di scorrimento del
conglomerato e, quindi, alla deformabilità
dello stesso per effetto del peso proprio:
maggiore sarà il diametro finale e più elevata
sarà la deformabilità del calcestruzzo allo
stato fresco. Oltre allo slump flow, molto
diffuso nei cantieri anche per la sua semplicità,
esiste il metodo V-funnel/O-funnel, ossia
lo svuotamento al cono. Il metodo consiste
nel misurare il tempo impiegato da un volume
noto di calcestruzzo a fuoriuscire da un
imbuto (funnel) a forma di V (in questo caso
V-funnel, metodo più diffuso in Italia) o
di O (in questo caso O-funnel) di dimensioni
standardizzate. Il tempo di svuotamento del
calcestruzzo dall’imbuto è direttamente correlato
con la sua viscosità plastica: minore risulta
il tempo di svuotamento, meno viscoso sarà
il conglomerato cementizio e quindi maggiormente
autocompattante. Mentre i tempi di svuotamento
registrati per i calcestruzzi autocompattanti
sono compresi nell’intrevallo tra i 2 ed
i 12 secondi, quelli dei calcestruzzi tradizionali
superfluidi possono essere superiori ai 30
secondi e, in alcuni casi, per effetto della
segregazione del calcestruzzo, si può verificare
anche un arresto della fuoriuscita del conglomerato.
L’U-shaped ed il box shaped apparatus consistono
rispettivamente in un’apparecchiatura a forma
di U e in una scatola. Queste consistono
in due camere, divise da un ostacolo costituito
da una serie di armature e da una saracinesca.
In questo caso viene misurata l’altezza di
riempimento del calcestruzzo introdotto in
una sola delle camere dopo il sollevamento
della saracinesca, ed il tempo valutato dall’apertura
della saracinesca fino all’arresto del flusso.
Questi valori sono correlati con la mobilità
del calcestruzzo in spazi ristretti. Se il
conglomerato raggiunge maggiori altezze di
riempimento in tempi brevi, significa che
è dotato di eccellenti proprietà di mobilità
in spazi ristretti e di deformabilità allo
stato fresco. Generalmente i calcestruzzi
autocompattanti raggiungono altezze di riempimento
maggiori di 300 millimetri in tempi inferiori
ai 10 secondi. Le proprietà reologiche dei
calcestruzzi possono essere misurate anche
tramite una scatola ad L (L-box). Le barre
di armatura che fungono da ostacolo al movimento
del conglomerato cementizio possono essere
disposte verticalmente oppure orizzontalmente.
Con questo metodo viene misurata la distanza
di arresto del calcestruzzo dal punto di
apertura ed il tempo necessario per conseguire
la posizione finale. Altro elemento di valutazione
è il rapporto tra l’altezza nel punto di
arresto e l’altezza nel punto di uscita del
materiale. L’autocompattabilità sarà tanto
più elevata quanto minore sarà la differenza
in termini di altezza che esiste tra il punto
finale di arrivo ed il punto iniziale di
uscita. I calcestruzzi autocompattanti solitamente
raggiungono l’estremità della scatola orizzontale
in tempi compresi tra 5 e 12 secondi. Tramite
l’L-box si ottiene un’indicazione completa
sulle proprietà di autocompattabilità: la
misura del diametro finale e la posizione
finale sono correlate con il limite di scorrimento
e con la viscosità plastica del materiale
e, quindi, con la deformabilità del calcestruzzo
allo stato fresco. Il valore dell’altezza
del calcestruzzo del punto più avanzato e
quella del conglomerato nella scatola verticale
inoltre, è correlato con le proprietà di
flusso in presenza di ostacoli. Inoltre,
comparando il quantitativo di aggregato grosso
del calcestruzzo prelevato nel punto a maggiore
distanza dalla saracinesca con quello nominale,
è possibile valutare la resistenza alla segregazione
di flusso del conglomerato. Il test con l’“L-box”
ad armatura orizzontale, in relazione alla
mobilità in spazi ristretti (e quindi all’effetto
bloccaggio generato dalla collisione degli
aggregati grossi) e alla resistenza alla
segregazione, risulta sicuramente quello
più impegnativo, sia per il ridotto interferro
sia per l’elevata presenza di ferri d’armatura
(20 barre diametro 20 su 66 centimetri di
percorso). Per questo motivo viene utilizzato
per valutare l’autocompattabilità di strutture
con geometrie particolarmente impegnative,
con sezioni sottili, e caratterizzate da
una elevata percentuale di ferri d’armatura.
Riassumendo, mentre il metodo dello Slump-flow
e dei Funnel comportano solo una visione
parziale delle proprietà reologiche dei calcestruzzi
autocompattanti (resistenza alla segregazione
e deformabilità), al contrario, le scatole
a forma di U o di L (U-box, L-box) danno
contemporaneamente informazioni sulla mobilità
del materiale in presenza di sezioni congestionate
da elevata densità dei ferri da armatura,
sulla deformabilità, e sulla resistenza alla
segregazione di flusso.
UNA SCELTA ACCURATA DI INGREDIENTI
I calcestruzzi autocompattanti si differenziano
dai tradizionali conglomerati cementizi per
un maggior volume del materiale fine ed un
minor contenuto di aggregati grossi. Poiché
dal punto di vista reologico il calcestruzzo
può essere considerato un sistema costituito
da due fasi di cui una, la pasta, costituisce
il fluido trasportatore e l’altra invece,
costituita dagli aggregati lapidei, rappresenta
la fase “trasportata”, per confezionare un
calcestruzzo autocompattante altamente fluido
si rende necessario aumentare il volume di
materiale finissimo che costituisce il fluido
trasportatore a scapito del minor volume
di aggregato, in particolare di quello grosso
che deve essere trasportato. Il volume di
materiale finissimo però, non può essere
raggiunto limitandosi ad incrementare il
dosaggio di cemento: questo potrebbe causare
fessurazioni dei getti, conseguenti ai maggiori
gradienti termici oltre che a una minore
stabilità dimensionale. Occorre quindi utilizzare
cemento combinato con materiale finissimo
caratterizzato da lenta o nulla velocità
di sviluppo del calore, come la cenere volante,
il calcare macinato, la loppa d’altoforno,
il metacaolino, eccetera. Limitando il volume
di aggregato grosso, non solo diminuisce
la fase del sistema che deve essere trasportata,
ma si riduce notevolmente il numero di collisioni
tra i granuli dell’elemento lapideo che provocano
il blocco del calcestruzzo nelle zone particolarmente
congestionate dalle armature. Nei calcestruzzi
autocompattanti il volume di sabbia risulta
pressoché invariato rispetto a quello utilizzato
per confezionare i calcestruzzi tradizionali.
Per limitare il volume di acqua senza intaccare
l’elevata fluidità richiesta per il self-compacting
concrete, è necessario inoltre utilizzare
efficaci additivi iper-riduttori di acqua.
I volumi di materiale finissimo e di aggregato
grosso vengono stabiliti in base al grado
di autocompattabilità che si vuole conseguire,
e al livello di prestazione meccanica richiesta.
In base a questi parametri, i calcestruzzi
autocompattanti vengono suddivisi in tre
categorie: § Normal self-compacting concrete
(NSCC), che include i calcestruzzi autocompattanti
da utilizzare per getti in opera in cui è
richiesta una resistenza caratteristica compresa
tra 25 e 40 Newton al millimetro quadrato;
§ Precast self-compacting concrete (PSCC),
che include calcestruzzi autocompattanti
prevalentemente destinati al settore della
prefabbricazione laddove è richiesta una
resistenza variabile tra 45 e 60 Newton al
millimetro quadrato; § High-strength self-compacting
concrete (HSSCC), che include calcestruzzi
caratterizzati da una resistenza maggiore
uguale a 65 Newton al millimetro quadrato,
utilizzati per strutture sia in opera che
prefabbricate in cui, per particolari esigenze
statiche , sono richieste per il calcestruzzo
prestazioni meccaniche elevate. Quando si
confeziona un calcestruzzo autocompattante,
per raggiungere i requisiti di deformabilità,
mobilità in spazi ristretti ed elevata resistenza
alla segregazione, è opportuno rispettare
i requisiti composizionali riguardanti il
volume di finissimo, la pezzatura massima
ed il volume degli aggregati grossi, il rapporto
acqua/finissimo, ed il volume di pasta. Nei
Normal self-compacting concrete, caratterizzati
da minori volumi di legante rispetto a quelli
richiesti per i PSCC e gli HSSCC, l’elevata
stabilità e assenza di risalita d’acqua viene
conseguita introducendo negli impasti un
additivo modificatore di viscosità (Viscosity
Modifying Agent). Si tratta di una particolare
tipologia di additivi, che lasciano immutata
l’elevata deformabilità conseguita grazie
all’aggiunta degli additivi iper-riduttori
di acqua, e garantiscono al tempo stesso
un incremento del limite di scorrimento (della
coesione) e dell’omogeneità del calcestruzzo
che presenta così una segregazione praticamente
nulla. Aggiungendo questi modificatori di
viscosità, si ottengono impasti dotati di
elevate capacità reologiche che, nel contempo,
allo stato di quiete, sono caratterizzati
da assenza di segregazione dei componenti.
Questi additivi, durante la messa in opera,
avvolgono gli aggregati grossi con uno spessore
sufficiente di malta capace di ridurre notevolmente
il numero di collisioni dei granuli di dimensioni
maggiori ed eliminando di conseguenza l’effetto
bloccaggio in corrispondenza dei restringimenti
del cassero e attraverso le armature. Un
buon agente viscosizzante è costituito da
una miscela di polimeri idrosolubili che
si assorbe sulla superficie dei granuli di
cemento modificando la viscosità dell’acqua
e influenzando le proprietà reologiche della
miscela. Il suo meccanismo di funzionamento
si basa su una duplice azione: diminuzione
della viscosità e mantenimento della coesione
interna del calcestruzzo durante la fase
di getto grazie alle catene polimeriche dell’additivo
che si orientano secondo la direzione di
scorrimento della miscela; resistenza alla
segregazione conseguente all’aggregazione
delle catene polimeriche, a calcestruzzo
fermo. L’agente viscosizzante in questo modo
permette di: perfezionare la reologia delle
miscele aumentando la coesività ed eliminandone
il bleeding; produrre calcestruzzi caratterizzati
da una grande stabilità e una forte capacità
di ritenzione d’acqua; ottenere una malta
più omogenea in grado di mantenere in sospensione
e trascinare le particelle solide del calcestruzzo
garantendo un’ottima capacità di riempimento
delle casseformi; rendere la miscela meno
sensibile alle variazioni granulometriche
della sabbia, alla forma e al grado di umidità
degli aggregati e alle caratteristiche dei
leganti; ottenere una maggiore flessibilità
nella scelta e nella tipologia dei getti
attraverso un basso rischio di segregazione,
maggiori velocità e distanze di pompaggio;
fornire un ampio range di tolleranza nel
contenuto d’acqua d’impasto grazie all’effetto
viscosizzante, senza problemi di segregazione.
VERSATILITÀ NELLA MESSA IN OPERA
I calcestruzzi autocompattanti vengono confezionati
utilizzando gli stessi impianti con cui sono
prodotti i calcestruzzi tradizionali. Gli
ingredienti possono essere mescolati sia
nei mescolatori planetari ad asse verticale
che direttamente in autobetoniera. La procedura
di immissione degli ingredienti deve avvenire
dopo aver introdotto almeno il 90 per cento
dell’acqua d’impasto prevista. Viene poi
introdotta l’ulteriore acqua e l’additivo
modificatore di viscosità. Infine, si verifica
la fluidità dell’impasto tramite uno dei
metodi di misura delle proprietà reologiche.
La lavorabilità al momento della miscelazione
dovrà essere aggiustata tenendo conto della
inevitabile perdita durante il trasporto
e la messa in opera del conglomerato mediante
pompa. Il controllo della fluidità in cantiere
può essere effettuato, oltre che con i tradizionali
metodi (slump-flow, L-box, eccetera), mediante
un’apposita attrezzatura attraverso la quale
il calcestruzzo dalla betoniera fluisce prima
di essere inviato alla pompa. Le operazioni
di pompaggio vengono effettuate con tubi
del diametro di 100-125 millimetri e lunghezza
non superiore a 300 metri. Nel corso del
pompaggio, oltre alla perdita di lavorabilità
può verificarsi una maggiore perdita di pressione
(rispetto ai calcestruzzi tradizionali) conseguente
all’aumento della velocità del calcestruzzo
autocompattante all’interno del tubo forma.
E’ importante dimensionare adeguatamente
i casseri in quanto l’aumento della velocità
di pompaggio e l’incremento della velocità
di posa in opera del calcestruzzo compattante
producono un aumento delle spinte laterali
su di essi. Inoltre è necessaria la verifica
di tenuta delle casseforme al fine di evitare,
soprattutto alla base di strutture verticali,
un riflusso di boiacca verso l’esterno. Per
quanto riguarda le altezze di caduta del
calcestruzzo, queste devono essere verificate
di volta in volta in relazione alla geometria
dell’elemento da realizzare ed alla percentuale
di armatura. Nel getto di elementi chiusi
e di sezione sottile è opportuno predisporre
dei punti di “sfogo” per l’aria. Scelta dei
disarmanti e pulizia delle casseforme avranno
gli stessi requisiti validi per i calcestruzzi
tradizionali. Va inoltre considerato che
il minor quantitativo di acqua di bleeding
(rispetto ai calcestruzzi tradizionali) può
determinare un più rapido essicamento del
calcestruzzo autocompattante. Dunque, in
occasione di operazioni di finitura superficiali
è necessario mantenere accuratamente umida
la superficie o proteggerla tramite agenti
stagionanti. La stagionatura umida della
superficie dei getti è fondamentale per garantire
la formazione di una “pelle” impermeabile
e resistente agli agenti aggressivi ambientali.
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